#JustSaySorry

Si sono incontrate durante le prove della performance di Lady Gaga di “Til it happens to you”, brano candidato agli Oscars 2016 come colonna sonora del docu-film “The Hunting Ground” che denuncia l’emergenza stupri nei campus americani. C’erano anche loro tra quelle cinquanta persone salite sul palco durante la diretta che con sguardo fiero, hanno alzato i pugni al cielo, mano nella mano per farsi coraggio e per dimostrare a tutti che il dolore non le aveva vinte, che la rabbia non le aveva accecate. Che, sì, era successo proprio a loro, ma che loro non avevano fatto nulla di sbagliato.

Wagatwe Wanjuki e Kamillah Willingham sono due giovani attiviste afroamericane, neo fondatrici di SERC  (Survivors Eradicating Rape Culture), un movimento che combatte per smantellare la violenza di genere sin dalle radici e che sogna in un immaginario prossimo futuro di poter essere obsoleto. Un desiderio che ad oggi è una chimera. Da un’indagine del 2015 risulta che il problema degli abusi sia noto al 32% dei presidenti dei college, ma che per solo il 6% la questione riguarda direttamente il proprio campus. “Se [alle istituzioni universitarie] interessa porre fine agli abusi nei campus, se hanno a cuore la giustizia, allora dovrebbero fare il minimo indispensabile porgendo le loro scuse alle vittime per non aver fatto il loro lavoro”, così argomenta la Wanjuki nel video pubblicato l’8 agosto su Facebook live che ha dato il via alla nuova campagna virale del movimento sull’onda dell’hashtag #JustSaySorry. Scuse tardive, ma che ammetterebbero gli errori commessi nel passato e che richiamerebbero ciascun istituto alle proprie responsabilità di fronte alla tutela dei singoli studenti e al rispetto del Titolo IX.

Le due attiviste scelgono di unire la potenza comunicativa dei social alla più arcaica e iconica tra le forze distruttrici, il fuoco, che rende cenere la felpa della università di Tufts o i pantaloni della tuta di Harward. Un tempo simboli di orgoglio, di appartenenza, di desideri che si realizzano, ed ora di sogni infranti, di una vita da ricominciare. Wagatwe, quando nel 2008 denunciò la sua storia, non ottenne nessun aiuto da parte della Tufts per la quale, anzi, divenne personaggio scomodo. Dal canto suo, Kamillah ammette di riconoscere ad Harvard il prestigio di una semplice “università di studi di legge”.

Ma dalle ceneri si può rinascere e anche più forti di prima se la propria storia serve da esempio per  dare conforto ad altre vittime ancora emarginate e ignorate. Ora la campagna #JustSaySorry invita anche gli altri “sopravvissuti” a fare lo stesso, bruciando gli indumenti recanti il nome dell’istituzione da cui pretendere scuse e a condividere l’azione attraverso foto o video pubblici su Facebook. È possibile supportare la campagna anche taggando le università su Facebook o inviando un tweet a @TuftsUniversity, a @Harward e @Harward_Law chiedendo loro #JustSaySorry. I genitori, inoltre, gli studenti e chiunque intenda dare il proprio contributo può creare un video o scattare una foto in cui un assegno intestato ai campus sotto accusa venga distrutto, spiegando il motivo della mancata donazione.

“La responsabilità istituzionale deve essere una norma, non un’eccezione”, e finchè così non sarà le due attiviste si dicono pronte ad incenerire indumenti ogni settimana.

Chiara Bernocchi

Autore: chiarasututto

Da poco entrata nei fatidici 30, laureata in storia e critica dell'arte, impiegata in una multinazionale coreana, amante dei viaggi. ..su carta, neomamma. Tutto quello che non so ancora di me lo scoprirò. ..scrivendo!

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